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Intervista a Sante Maiolica: viaggio nelle strategie dei private equity

Sante Maiolica
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“Se dieci anni fa qualcuno mi avesse detto che oggi l’operatore di Private Equity sarebbe stato interessato a investire in aziende con margini operativi negativi, organizzate in strutture composte da pochissime persone e il cui business model si basa su infrastrutture totalmente digitali, non ci avrei mai creduto”.

Sante Maiolica, CEO di Grant Thornton Financial Advisory Services (GTFAS), per tredici anni si è occupato di private equity. Poi, dal 2013, è passato dall’altra parte della barricata: m&a.

“Non ci avrei mai creduto, eppure oggi va così”. E se per una volta allora si cominciasse dalla fine? Cioè da questa domanda: qual è il tipo di azienda che oggi non attira, ma che di sicuro lo farà tra 10 anni? Risposta: “Se lo sapessi, probabilmente ora avrei uno yacht”.

D’accordo. Forse ci si può arrivare per gradi. Stavolta partendo dall’inizio com’è giusto che sia. E il punto di partenza è l’indagine realizzata da Grant Thornton sul posizionamento competitivo dei fondi di private equity in Italia, individuando quale strategia implementano per assecondare o gestire le dinamiche di mercato. Una vera e propria mappatura scientifica, che comprende gli ultimi dieci anni: dal 2013 al 2023. Spiega Maiolica: “Abbiamo esaminato i private equity uno a uno, e abbiamo investigato le loro investment strategy per comprenderne l’evoluzione”.

Cosa è emerso?

Che oggi il trend è investire sull’intangibile. Cosa che dieci anni fa, come dicevo, sarebbe stato impensabile.

Investire sull’intangibile. Questa la spieghiamo.

L’esempio più facile è quello delle app in ambito retail, quindi abbandoniamo solo per un istante l’ecosistema dei fondi. Ma la sostanza è la stessa. Perché oggi c’è grande predisposizione a investire in un servizio ‘dematerializzato’, piuttosto che in una ditta che dispone di uffici e stabilimenti.

Netflix e lo streaming, per esempio?

Quando uscivano i primi smartphone, nessuno era disposto a pagare per un abbonamento a un’app. Non percepivamo il fatto di dover attribuire un valore a un servizio intangibile o elettronico. Oggi è ormai quotidianità abbonarsi a 10 euro al mese per una qualunque piattaforma per le serie tv, o per un pacchetto di lezioni del proprio coach che segue da remoto i nostri allenamenti o le nostre sedute di yoga.

In una parola: innovazione. Vale per il consumatore e vale per il private equity?

La tendenza dei fondi è investire su quella società che a supporto del servizio offre un sottostante tecnologico o di natura innovativa. In parole povere, non si investe tanto sulla qualità del prodotto, ma sulla capacità dell’azienda di ottimizzare la distribuzione o la produzione del servizio attraverso la digitalizzazione, e la propensione dell’azienda stessa all’aggregazione con altre realtà simili o competitor.

Su questo ci torniamo. Prima un’altra domanda: se sono cambiati gli investimenti, sono cambiati anche i fondi?

Profondamente. E con loro sono cambiate le loro strategie. Dieci anni fa andavano per la maggiore i cosiddetti fondi regionali, attivi sul territorio, promossi dalle amministrazioni locali. Size molto contenute, sostanzialmente micro e piccole aziende.

Di che tipo?

Torniamo al discorso iniziale. Più o meno l’opposto di adesso. Gli investimenti dovevano essere tangibili. L’impresa doveva disporre di immobili, macchinari, forza lavoro organizzata in macrostrutture, pena l’ineleggibilità a poter ricevere un investimento. Un’azienda attiva in consulenza strategica, per fare un altro esempio, era come se non esistesse per i fondi. Investire su di essa significava comprare il suo know how, che era come comprare qualcosa che non si vede. Questa è la fotografia del nostro private equity dieci anni fa.

Cos’è che ha fatto cambiare le cose?

A costo di essere ripetitivi, certamente il Covid ha avuto un suo peso. Osservando tutti i regolamenti dei fondi specifici nel decennio preso in considerazione, c’è stata una netta evoluzione, oltre che un aumento del numero dei fondi stessi. Le dimensioni dei deal sono aumentate e le operazioni piccole si sono rivelate spesso un cattivo investimento.

Come mai?

I motivi sono sostanzialmente due. Da una parte i fondi regionali hanno smesso di esistere. Con la pandemia è venuto meno il senso di una politica di investimento puramente geografica. Investire per esempio in un’azienda lombarda e poi non poter proseguire con altre acquisizioni perché magari il competitor è calabrese o perché uno stabilimento dell’azienda interessata si trova in Polonia, evidentemente non dà margini di crescita. Aziende con meno di 10 milioni di fatturato e dalla geografia limitata hanno dovuto chiudere uffici e aree di produzione per le misure di contenimento causa pandemia, senza poter competere con altri operatori che avevano la possibilità di importare da altre parti d’Europa, o di mantenere aperti le sedi all’estero.

Operare su size piccole per colmare l’equity gap che caratterizza il tessuto imprenditoriale del tempo dunque non si è rivelato lungimirante.

Non solo. Al tasso di rischio molto alto e alla scarsa capacità di innovare, si è aggiunta la difficoltà di perfezionare una exit a causa di un altro elemento capace di mettere in crisi un po’ tutto. Ovverosia le partecipazioni di minoranza. 

Acquisire quote di minoranza una volta era il pilastro sottostante qualsiasi operazione per finanziare lo sviluppo di impresa.

C’entra sempre il Covid, per certi versi. Davanti alle difficoltà legate alla pandemia o al gap tecnologico non c’è stato ampio margine di intervenire per i private equity in possesso di una quota di minoranza. Il cerino, se così vogliamo chiamarlo, è rimasto in mano all’imprenditore.

Che ha sottovalutato le difficoltà di quel periodo?

Della serie: ho superato tante crisi, tra il 2000 al 2012, supereremo anche quella del 2020. Così però si è andata a ingessare l’operatività senza riuscire a mettere le aziende nelle condizioni di poter reagire a dinamiche di mercato molto più impattanti.

Da qui la decisione dei fondi di ridurre operazioni di minoranza?

Hanno preteso più potere decisionale. Il controllo dell’azienda passa di fatto all’investitore finanziario. Che da una parte concede deleghe all’imprenditore, ma in situazioni avverse prende possesso del timone, almeno finché si tratta di traghettare ‘fuori dal pantano’. Interloquendo con i fondi abbiamo potuto percepire in maniera empirica che questo è il paletto diventato imprescindibile per ogni operazione.

In forte calo negli ultimi anni. Con un graduale abbandono anche dei fondi regionali.

Tutti i fondi hanno iniziato a rivedere i loro regolamenti di gestione, diversificando i loro obiettivi e i loro orizzonti geografici: contesti sempre più nazionali e anche internazionali e netto aumento della size dei loro ticket di investimento. Di fatto il target dei fondi non è più la micro o piccola impresa, ma la piccola o media impresa con previsioni di crescita accelerata. In due parole: le platform company, una tipologia di aziende predisposte in maniera quasi immediata all’aggregazione (“add on”). Oggi non c’è Pmi che si venda sul mercato se non c’è possibilità di fare un’integrazione orizzontale o verticale che sia.

Facciamo qualche esempio?

Il gruppo Florence. Una ventina di realtà manifatturiere aggregate in breve tempo, ciascuna delle quali attive nel luxury fashion internazionale. Da sole sui 7-8 milioni di euro come fatturato. Aggregate, e con un’unica cabina di regia, fanno invece 150-200 milioni di fatturato. Da micro imprese, lavorando con un solo cliente, anche grosso, il rischio era di finire spazzati via al primo cambio del direttore acquisti della multibillion company. Al contrario, da aggregati, il rischio implicito si riduce considerevolmente.

Torniamo all’altro aspetto chiave del cambio di strategy dei private equity: l’intangibile.

I fondi small sono scomparsi. Ora ci sono fondi di natura mid o large. I fondi di expansion si sono più che dimezzati rispetto a 10 anni fa. La maggior parte con priorità su buyout e maggioranze, non limitati dal punto di vista geografico. Anzi. Il plus valore è nella rete di contatti internazionale, con la mission di portare specializzazione verso settori nuovi.

Come il digitale. L’intelligenza artificiale. La cybersecurity.

Più che altro le aziende che riescono ad applicare tutto questo nel proprio settore. Ci sono fondi specializzati nella silver age, ad esempio, o nei servizi alla persona. Dieci anni fa qualcuno avrebbe investito in una piattaforma tecnologica sull’assistenza psicologica? Non si investe tanto sulla bravura dei professionisti, ma sulla piattaforma. Le dico un altro settore interessante.

Prego.

La private education è particolarmente vivace. Oggi una scuola privata in lingua inglese incardinata su una piattaforma di learning internazionale ha liste di attesa infinite, con rette da università e ciò nonostante gente che fa a pugni per far l’iscrizione. La formazione accademica è puramente digitale, vedi il caso di Unipegaso o dell’Università Telematica del San Raffaele di Milano, e se un’istituzione come il San Raffaele decide di diventare totalmente digital, vuol dire che il mercato va davvero in quella direzione.

Altri settori che destano interesse?

Quello della logistica e dei trasporti. Percepito come un settore povero, fatto di servizi di facchinaggio o di guida, i fondi oggi hanno capito che si tratta di un’infrastruttura vera e propria, alla base della movimentazione dell’e-commerce. Nei portafogli PE ci sono tante aziende di questo settore. L’imprenditore non cresce più come una volta, comprando prima un camion, poi due, poi cinque e fino a dieci. Adesso è tutta una questione di automazione, che potrebbe fare invidia alla Nasa. 

E invece un settore in declino, perlomeno nel portafoglio dei fondi?

Forse la meccanica di precisione, industry di eccellenza italiana. Lo è sempre stata, sia chiaro. Importante nel sistema oil and gas, automotive, o i distretti della refrigerazione. Sono settori pazzeschi che hanno destato interesse per molto tempo. Ma nel lungo periodo la tecnologia è rimasta basica, destinata al trasferimento in toto in Paesi come Cina, India e Brasile, dove la manodopera è più accessibile, senza necessità di trasferire alcun know how perché si può controllare e governare tutto da remoto. Settore una volta considerato come una pepita d’oro, adesso sostanzialmente ai margini.

Il food sembra sia tornato a correre.

Con una differenza. I private equity prediligono le società che mettono insieme prodotto di qualità e tecnologia. Cvc ha scelto La Piadineria per la digitalizzazione del business. Con un’app in 10 secondi ordino la mia piadina e so anche a che ora posso ritirarla. Alto Partners ha investito su Fradiavolo, capace di sfornare in un’ora fino a mille pizze e dallo standard qualitativo altissimo. Il fondo investe nel sistema interamente digitale che gestisce il processo di produzione e non più sulla pizza in sé. Poi chiaramente c’è la nuova frontiera del food che viaggia da sola: il gluten free, il vegano, la nutraceutica o la carne vegana.

Com’è la situazione all’estero?

Come tendenza possiamo definirla una must-have. Anche in Italia iniziamo a vedere questo fenomeno, ma tanto per cambiare siamo indietro. E spiego come. Nel nostro Paese gli advisor sono sostanzialmente generalisti. In Uk, negli Usa o in Irlanda i team lavorano per settori. E quindi c’è un team che si occupa di Tlc, uno che segue solo il food e così via. 

Torniamo alla prima domanda: un settore che oggi fa fatica ma che tra dieci anni andrà a gonfie vele.

Il mondo della robotica. Vedo tantissime aziende, che si affacciano al mondo dei mercati con proposte ambiziose, prendersi grandi sportellate in faccia. Mi sorprende. Ci sono robot capaci di riabilitare determinate parti del corpo in maniera perfetta ma fanno fatica a fare fund raising. Domani le macchine potranno fare la riabilitazione del ginocchio o dell’anca in maniera perfetta senza rischio di errori, l’offerta sta aumentando e l’intuizione degli imprenditori va in quella direzione. I capitali però non la stanno recependo ancora. Un domani cambieremo idea.

 

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