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Le novità approntate dal Parlamento incidono su taluni aspetti, importanti, di alcuni istituti deflativi del contenzioso tributario, nonché sulle istanze presentate dai contribuenti per richiedere la sospensione degli atti impositivi/esattivi.
Reclamo mediazione
Tale istituto-deflativo, che si applica sostanzialmente a ogni tipologia di lite (ad eccezione di quelle aventi ad oggetto risorse proprie tradizionali dell’Unione Europea) il cui valore è non superiore ad Euro 50.000, prevede che – prima di introdurre il ricorso presso il giudice tributario - sia esperita tra contribuente e amministrazione finanziaria/agente della riscossione/ente locale una preventiva fase di mediazione volta a trovare un punto di accordo e scongiurare l’insorgere della lite.
Come noto, il principale limite dell’istituto deriva dal fatto che il mediatore non è un soggetto terzo, bensì un organo “interno” della stessa parte pubblica.
Tipicamente pertanto, prima di questa riforma, il contribuente che presentava reclamo - con o senza una proposta di mediazione, ma certamente richiedendo il sostanziale riconoscimento delle proprie ragioni - vedeva queste ultime quasi sempre integralmente rigettate, poiché per il mediatore le conseguenze dell’eventuale accoglimento in giudizio delle ragioni del contribuente - già avanzate in fase di reclamo - erano sostanzialmente irrilevanti.
Il “flop” dell’istituto, come pensato ante-riforma, è ben sintetizzato dalle impietose statistiche (Rendiconto generale dello Stato – anno 2021 – predisposto dalla Corte dei Conti): nel 2021, a fronte di otre 35mila istanze di mediazione presentate, soltanto il 6,7% si è chiusa con un accordo fra l’ufficio e il contribuente.
Si prevede invece adesso che, in caso di accoglimento in giudizio delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione da una delle due parti, l’altra parte (soccombente) è automaticamente condannata alle spese di giudizio (che nel caso del reclamo peraltro sono maggiorate del 50 per cento).
Questa novità, che apparentemente mira a responsabilizzare sia la parte pubblica sia quella privata, inciderà in verità maggiormente sulla prima, in quanto si specifica ulteriormente che la predetta condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione.
La conciliazione giudiziale
A differenza del reclamo, questo istituto mira a deflazionare la lite quando essa è già iniziata e già pertanto sottoposta al vaglio del Giudice tributario. Tipicamente, la conciliazione ante-riforma avveniva su impulso delle parti.
Qui la riforma agisce su due aspetti.
Il primo è relativo alle liti, il cui valore è inferiore ad Euro 50.000 (in sostanza le liti reclamabili), rispetto alle quali si introduce la possibilità per il giudice (in entrambi i gradi del giudizio di merito) di formulare la proposta di conciliazione.
La novità introdotta potrebbe in linea teorica avere risultati apprezzabili, dal momento che una proposta di conciliazione proveniente dal Giudice di fatto potrebbe costituire una sorta di “anticipazione” dell’esito del giudizio: ben potrebbe, pertanto, sensibilizzare le parti ad accordarsi.
Qualche dubbio sorge tuttavia in merito ad alcuni paletti fissati dal legislatore:
- Il primo è relativo al fatto che la proposta del giudice può avvenire “riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”; a ben vedere, l‘inciso potrebbe avere l’effetto di scoraggiare l’intervento del Giudice proprio su quei casi più complessi dove invece l’autorevolezza di una proposta da lui formulata potrebbe indurre le parti a più miti consigli;
- Il secondo è relativo alla soglia quantitativa, che di fatto taglia fuori le cause di importo più rilevante, dove forse ci sarebbe un maggiore interesse (sia da parte dell’erario, sia da parte del contribuente) a trovare un accordo al fine di stabilizzare e rendere certo il rapporto tributario.
Il secondo aspetto su cui agisce la riforma è relativo alle spese di giudizio in caso di soccombenza. In questo caso, sempre col fine di sensibilizzare le parti a trovare un ragionevole “compromesso” e così deflazionare la lite, si prevede l’automatica maggiorazione del 50% delle spese di giudizio per quella parte che, senza giustificato motivo, abbia rifiutato la proposta di conciliazione (proposta dall’altra parte o dal Giudice), quando il riconoscimento giudiziale delle pretese della parte che non ha accettato tale proposta risulti inferiore al contenuto della proposta medesima.
L’intento di questa novità pare apprezzabile, anche se nella pratica – ante riforma – le proposte di conciliazione raramente si formalizzavano (salvo ovviamente nel caso di raggiungimento dell’accordo).
Senza obblighi di deposito in giudizio delle proposte di conciliazione formulate dalle parti, la norma rischia pertanto di restare lettera morta.
La tutela cautelare
La riforma, sempre con l’apprezzabile obbiettivo di migliorare il funzionamento della macchina giudiziaria, agisce anche sulle tempistiche delle istanze di sospensione giudiziale e sul loro funzionamento.
Come noto, le istanze sono proposte dai contribuenti al fine di scongiurare il pregiudizio economico-patrimoniale che può derivare dall’esecutività dell’atto impositivo o della riscossione.
Le statistiche dicono che ante-riforma solo un terzo delle istanze di sospensione giudiziale è stato deciso: di questo terzo, oltre la metà è stato deciso oltre 180 giorni dalla proposizione dell’istanza. E’ evidente che tale situazione esponeva i contribuenti al rischio probabile di un’esecuzione, soprattutto in quelle corti di giustizia tributarie dove vi sono forti arretrati e, quindi, accade spesso che le istanze non siano nemmeno trattate.
Con la riforma si riduce il termine concesso per la fissazione dell’udienza di trattazione della sospensiva da 180 a 30 giorni, decorrenti dalla proposizione dell’istanza.
L’intervento sarà risolutivo? Probabilmente no. Non è stata, infatti, prevista la perentorietà del termine per la fissazione dell’udienza nel termine di 30 giorni (in analogia, peraltro, con quanto era disposto in vigenza del termine di 180 giorni).
E’ chiaro che se lo “sforamento” del termine previsto dalla Legge non implicherà alcuna seria conseguenza, la novità non produrrà alcun effetto benefico per i contribuenti.
Per altro verso (riguardante il meccanismo di funzionamento della fase di tutela cautelare) si dispone che l’udienza di trattazione dell’istanza di sospensione non può, in ogni caso, coincidere con l’udienza di trattazione del merito della controversia: in sostanza, si introduce il divieto per il Giudice di decidere, nel merito, durante la fase cautelare.
Ante-riforma, infatti, (anche a causa di un certo orientamento delle giurisprudenza di legittimità) era considerata legittima la decisione nel merito resa in fase cautelare. Le parti, in tali casi, perdevano la possibilità di depositare ulteriori documenti e memorie, con evidenti limitazioni del proprio diritto di difesa e del contraddittorio processuale.
Conclusioni finali
Le novità introdotte, connotate dall’apprezzabile intento di migliorare la giustizia tributaria - riducendo la litigiosità e velocizzando i procedimenti – rischiano tuttavia di essere vanificate da alcuni paletti posti dal legislatore (i.e.: soglie numeriche, limitazioni all’ambito di applicazione, assenza di conseguenze in caso di violazione delle regole procedurali) che appaiono il frutto di una non adeguata ponderazione dei loro risvolti sul processo. Permangono, inoltre, ancora immutate tutte le criticità – ormai note – dell’istituto della reclamo che, in assenza di un mediatore effettivamente “terzo”, continuerà verosimilmente a non produrre alcun apprezzabile e rilevante effetto sulla deflazione delle liti minori.